Segnalazioni

Un bancario in Salento: i travagliati alloggi degli inizi, nella città dei due mari

In una precedente narrazione ho messo in evidenza che la decisione di optare per il primo impiego a Taranto era scaturita, soprattutto, dalla circostanza che, in tale località, risiedeva la mia fresca fidanzata e, di riflesso, dal desiderio d’iniziare a lavorare standole vicino.

Avevo, però, piena consapevolezza che non avrei potuto trovare ospitalità, se non per qualche giorno o al massimo per limitati periodi, presso la sua abitazione famigliare, e ciò per due motivi: primo, si trattava d’un appartamento medio piccolo che già accoglieva un nucleo di sette persone e, dunque, non c'era materialmente spazio; secondo, a quell'epoca non si usava, anzi non avveniva mai, che due fidanzati dormissero sotto lo stesso tetto.

Sicché, al neo assunto arrivato dal Basso Salento nel capoluogo posto sotto la protezione di S. Cataldo, accanto al battesimo in banca dietro una scrivania e a servire il pubblico, si pose, da subito, la necessità e l'urgenza di cercare e reperire un alloggio in cui vivere: peraltro, in base alla sostenibilità finanziaria consentita dallo stipendio, non un appartamento tutto per sé, bensì soltanto una camera presso una famiglia, dove aver agio di consumare anche i pasti, ponendosi ivi, insomma, in regime di pensione.

Questo, purtroppo, non fu per niente facile, rivelandosi, al contrario, una vera e propria impresa, ardua e travagliata, fra contorni e peripezie di vario genere.

L'unica certezza o base concreta d’agibilità e fruibilità materiali che potetti pormi in mano da me, fu la tessera d’abbonamento, senza limiti di corse, alla tratta numero 3, Via Dante - Rione Tamburi, delle autolinee urbane, beninteso con la valvola di sicurezza d’un rifugio fra le pareti domestiche della mia ragazza, ma solamente, come accennato dianzi, in situazioni eccezionali e momentanee.

Andando al concreto in direzione dell'obiettivo da realizzare, dopo alcuni giorni, su indicazione e suggerimento di un anziano cassiere della banca, mi portai in via Diego Peluso e contattai una signora sulla quarantina che occupava, insieme con due figli quasi miei coetanei e una bambina piccola, un appartamento sovrastante al cinema “Fiamma”: invero, senza soverchie formalità, la donna mi diede la sua disponibilità a prendermi in casa e concordammo le correlate condizioni economiche.

Scivolano ancora, nella mente, le prime sere e notti che passai, in fondo sereno e contento, a quell'indirizzo e in seno a quella famiglia; tuttavia, ahimè, fu un'illusione di brevissima durata.

A distanza d’una settimana, la padrona di casa ebbe infatti a dirmi che non poteva tenermi oltre, confidandomi che, dopo la separazione dal marito con il quale aveva procreato i due figli grandicelli, aveva allacciato una nuova relazione con un altro uomo, dalla quale era nata la bambina piccola e, infine e soprattutto, dicendomi chiaramente che il compagno s’era dichiarato assolutamente contrario alla presenza (la mia) d’un estraneo.

Mi toccò, gioco forza, di rifare la valigetta con le mie poche cose e, spiegando l'accaduto, appoggiarmi in casa della mia fidanzata.

Il di lei padre lavorava presso l'Arsenale Militare e, da vecchia data, conosceva di vista un ometto, il quale, lungo il muro di cinta del complesso marittimo, gestiva un chioschetto in legno per la vendita di caramelle sfuse, liquirizie, mentine, gassose, aranciate e chinotti.

A quanto riferitogli, sapeva anche che il lunario di detto esercente, in termini d’introiti, era precario e magro, sicché gli venne spontaneo di chiedergli se fosse disponibile a prendere in casa sua, come pensionante, il fidanzato della figlia, titolare di un buon impiego fisso.

L'interessato colse al volo la proposta, addirittura patteggiò il corrispettivo mensile (diciottomila lire) con il mio congiunto, che, da parte sua, ritenendo di non doversi far sfuggire l'occasione, prese lesto l'iniziativa di consegnargli brevi manu una mensilità anticipata.

La sera, rientrando a casa, recò lieto la buona notizia e, di conseguenza, il giorno dopo, io, guadagnai il nuovo alloggio in via Duca di Genova, un domicilio favorevole dal punto di vista logistico, essendo situato a non molta distanza dalla banca.

Lì, conobbi la padrona di casa, padrona in tutto e per tutto, in realtà era lei che portava i pantaloni, con una figlia all’incirca ventenne e, seppi subito, pure fidanzata e, infine, un ragazzino che andava ancora alle Elementari.

Non male, come ambiente d’insieme e come persone, tuttavia, fra quelle pareti domestiche, aleggiavano i medesimi segni di precarietà e indigenza che trasparivano dal chioschetto di vendita al dettaglio del capofamiglia ufficiale.

Voglio dire, senza fronzoli, che si faceva la fame, i piatti e le pietanze erano decisamente sotto il livello di minima sussistenza. Provai, perciò, a far osservare che mi sentivo del tutto insoddisfatto di fronte al trattamento messo a mia disposizione e chiesi, addirittura, di andarmene, ovviamente previa restituzione pro rata dell'anticipo consegnato.

La risposta, però, fu che i miei soldi erano già stati spesi per altre necessità e, di conseguenza, dovetti armarmi di santa pazienza e languire, diciamo così, per un mese, accontentandomi, in termini di dieta, di ciò che passava il convento.

Dopodiché, ancora una volta, rifeci il mio bagaglio e mi sottoposi alla consueta trafila.

Per precisione e completezza di narrazione, al fine di non andare sistematicamente a bussare sempre all’uscio dei famigliari della mia ragazza, non mancai d’ideare e porre in atto qualche stramberia, come, per una notte, di chiedere al mio amico e collega Gino M. di poter andare a dormire in seno alla famiglia che lo ospitava e, per un'altra notte, di recarmi presso un albergo d’infima categoria a Taranto Vecchia,  dove si dormiva in sei/sette persone in uno stanzone e bastarono poche ore affinché mi trovassi, senza volerlo, ad essere testimone di piccoli episodi e vicende di completo degrado morale e sociale, d’uno specifico genere non difficile da immaginare.

E, poi, all’occorrenza, m’avvalevo dell’estremo ripiego, non appena faceva giorno e in attesa che arrivasse l'orario d'ufficio, di montare a bordo degli autobus della linea 3 e fare su e giù, per ripetute tratte, sino a colmare l'arco temporale mancante.

Per fortuna, occorse un po' più di pazienza rispetto alle precedenti ricerche, ma, ad ogni modo, si presentò l'opportunità di un'ennesima nuova sistemazione; nella circostanza, presso una famiglia di via Dante, in prossimità del capolinea del mio autobus, dove rimasi per un annetto; insieme con me, c’erano altri due pensionanti, ragazzi anch'essi salentini frequentanti l’Istituto tecnico industriale, scuola che, all'epoca, a Lecce, ancora mancava. 

Fu, tale ultimo soggiorno, se non proprio ottimale, di discreta qualità e sereno, la signora, pur con limitate risorse e il consorte disoccupato, si sforzava di trattarci come meglio poteva. A un certo punto, però, non ricordo esattamente per quale ragione, la donna non fu più in grado o non ritenne di seguitare ad accogliere ospiti e, quindi, per il giovane bancario, venne a dischiudersi una nuova pagina bianca con la grande scritta “urge cercare casa”.

Saranno stati il dinamismo e la forza di volontà che si possono dispiegare intorno ai vent'anni, comunque anche le ulteriori indagini di mercato ebbero esito positivo.

Più o meno, nella stessa zona cittadina, in via Giovan Giovine, angolo piazza Messapia, conobbi un'anziana vedova, una figlia sposata abitante in Sicilia, la quale, per mantenersi, non bastandole la grama pensione, s’ingegnava d’ospitare, nella propria abitazione terranea di due stanze, bagno, cucina e piccolo ripostiglio, due/tre persone, soprattutto studenti.

Una donna, a prescindere dall’età e nonostante qualche acciacco fisiologico, ancora dinamica e attiva, le sue generalità di nascita all’anagrafe erano Benedetta P., era stata sposata con un certo Rosaspina, con il quale aveva avuto la figlia, rimanendo poi vedova. Successivamente, aveva a lungo convissuto con un secondo uomo, ottimo ricordo, a sua volta mancatole verso la fine degli anni cinquanta del scorso secolo.

Mi accolse bene, devo riconoscerlo, la nuova padrona di casa, mi riservò, anzi, un trattamento di riguardo, destinandomi a dormire, da solo, nel minuscolo ripostiglio e non a condividere con altri due ragazzi la camera da letto vera e propria.

In breve, divenni quasi di famiglia; la mia ospitante, per vezzo, non si faceva chiamare Benedetta, bensì con un appellativo differente, più corto, che purtroppo adesso mi sfugge. Ella aveva intanto conosciuto anche la mia fidanzata e la sua famiglia e, saltuariamente, la sera, ci raggiungeva nella loro abitazione, per guardare la tv, per la verità cadendo di solito in grandi sonni sulla sedia.

Forse incoraggiata dal mio lavoro di bancario (altri tempi!), m’affidò i suoi piccoli risparmi con cui le aprii un libretto di deposito, custodito gelosamente in una scatola di cartone, appoggiata su un ripiano posto sopra il capezzale del mio letto, nello stanzino.

Insomma, con la signora s’instaurò un rapporto intenso e mi capitò d’esserle vicino e d’assisterla in due particolari frangenti per lei sfortunati, ossia a dire una brutta congestione alimentare e, a causa d’un principio d’incendio in cucina, una serie di ustioni diffuse sul corpo, in entrambe le circostanze con corsa e ricovero in ospedale.

La padrona di casa, non Benedetta ma dal nome parlato che non ricordo, talvolta era da noi ospiti scherzosamente burlata con la definizione, che voleva fungere da una specie di terzo cognome, Pezzarossa. Tanto, a motivo che, ogni sera, la donna, avanti d’adagiarsi a dormire sul divano nella camera da pranzo, al fine di porsi, per pudicizia, al riparo dagli sguardi dei pensionanti che passavano di lì per andare in bagno, era adusa fissare, da una parete all'altra della stanza, a mo’ di divisorio, un grande drappo di pezza, di colore, giustappunto, rosso.

Per buona sorte, rimasi a lungo nell’appartamento della signora Pezzarossa, fino a quando non mi sposai con la mia fidanzata A., che, lei, era solita chiamare con il diminutivo vezzeggiativo di signorina Tina.

E’ oramai trascorsa una vita da quelle stagioni e, tuttavia, della donna in discorso, serbo tuttora un bellissimo ed edificante ricordo, nutrendo inoltre, nei suoi confronti, sentimenti di viva gratitudine e riconoscenza.

11 novembre 2015

Rocco Boccadamo

Lecce

(continua)


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