Cronaca

Caporalato: rete gestita da un indiano ramificata da Padova a Lecce

Sono quindici gli indagati, quasi tutti di nazionalità indiana. Reclutavano lavoratori dalle regioni più povere del loro Paese, portandoli in Italia e sfruttandoli. Soggiogati anche dal timore di ritorsioni alle famiglie d'origine

PADOVA – Sono quindici gli indagati, quasi tutti di nazionalità indiana, nell’ambito di un’inchiesta della guardia di finanza di Padova che ha messo a nudo le attività di un’associazione per delinquere finalizzata al caporalato e allo sfruttamento dei lavoratori. A capo di sarebbe proprio un indiano, residente in provincia di Padova, che avrebbe avuto sotto di lui una rete composta da organizzatori e partecipi, ramificata in tutta Italia: Alessandria, Mantova, Brescia, Verona, Vicenza, Padova, Venezia, Parma, Bologna, Forlì-Cesena, Arezzo, Perugia e Lecce.

L’indagine è stata svolta dai militari del Nucleo di polizia economico-finanziaria delle “fiamme gialle” di Padova. Tutti stranieri i lavoratori sfruttati, principalmente indiani, ma anche bengalesi e pakistani. Il presunto promotore è stato interdetto dall’attività imprenditoriale. Inoltre, i finanzieri hanno eseguito il sequestro di immobili e disponibilità finanziarie per oltre 750 mila euro.

Gli accertamenti sono stati svolti avvalendosi anche della collaborazione dei funzionari dell’Ispettorato territoriale del lavoro di Padova e hanno consentito di constatare che l’organizzazione si sarebbe occupata, innanzitutto, del reclutamento della manodopera, che avveniva tra soggetti stranieri in stato di bisogno o necessità presenti sia sul territorio nazionale, sia nello stato indiano del Rajasthan, dove emissari dell’associazione criminale attingevano manovalanza dalle fasce più povere della
popolazione rurale, prospettando migliori condizioni di vita e lavorative a fronte del pagamento di un’ingente somma, di cui un anticipo da corrispondere in madrepatria e il resto mensilmente, una volta intrapresa l’attività lavorativa in Italia.

Appena giunti sul territorio nazionale, i lavoratori ottenevano un regolare permesso di soggiorno grazie all’immediata assunzione presso cooperative fornitrici di forza-lavoro per la gestione di magazzini della grande distribuzione, siti principalmente nel nord Italia, ma anche in Toscana, Umbria e Puglia.

I lavoratori, come si spiega su PadovaOggi, infatti, erano sottoposti alla pressante vigilanza dell’organizzazione, che dislocava presso ogni cooperativa un fidato sodale con il compito di spegnere, con la minaccia e talvolta con l’uso della forza, ogni tentativo di protesta o ribellione, controllando anche la fruizione di ferie o permessi, nonché disincentivando l’eventuale adesione a organizzazioni sindacali.

Il clima di costante intimidazione era alimentato anche dal timore di possibili ritorsioni sui familiari rimasti in India. La soggezione delle vittime si manifestava anche fuori dai luoghi di lavoro: gli stessi – già gravati dalla necessità di mantenere le famiglie d’origine – erano costretti a restituire le ingenti somme dovute per l’ingresso e l’ottenimento dell’impiego in Italia, nonché obbligati a dimorare presso le abitazioni nella disponibilità degli organizzatori del sodalizio criminale, spesso in situazioni alloggiative degradanti, per essere sottoposti a un controllo stringente fino al pieno soddisfacimento della pretesa economica.

Il consistente profitto dell’organizzazione, pertanto, era assicurato dal denaro contante prelevato direttamente dai conti correnti dei lavoratori sfruttati, di cui la consorteria poteva disporre autonomamente, nonché dal rimborso forzoso delle spese di vitto e alloggio che rendevano, di fatto, indissolubile il legame tra il lavoratore sfruttato e gli indagati, che si protraeva anche dopo l’estinzione del debito iniziale. 

Tale profitto veniva in parte trasferito in India e in parte utilizzato per l’acquisto di ulteriori abitazioni da destinare a dimora obbligata dei lavoratori, in modo da alimentare e accrescere il sistema di sfruttamento della manodopera.
In conclusione, la stima dei soggetti reclutati e impiegati sul territorio padovano con il sistema del “caporalato” è risultata ammontare a oltre cento unità, fermo restando che non è possibile determinare in maniera compiuta il numero di tali maestranze, spesso trasferite presso le varie sedi delle cooperative coinvolte.

Al termine delle indagini, su richiesta della Procura della Repubblica di Padova, il giudice per le indagini preliminari ha emesso un provvedimento d’interdizione dall’esercizio dell’attività imprenditoriale nei confronti del promotore dell’associazione, disponendo il sequestro di tre immobili siti nella provincia di Padova, utilizzati per ospitare i lavoratori reclutati, nonché di ulteriori beni e disponibilità finanziarie, per un valore complessivo di oltre 750 mila euro.


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