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“Tagli nella sanità, il Covid-19 ha messo ora a nudo la miopia politica”

Stelio Alvino, anestesista leccese, è in prima linea in Toscana. Spiega perché è difficile la lotta al virus e denuncia anche i problemi. "Pandemie, c'è un piano del 2000 dell'Oms, ma manca l'aggiornamento costante degli approvvigionamenti"

SIENA - Stelio Alvino, 56 anni, leccese doc, quando può, ritorna nel Salento per riassaporare gli odori di casa. Da molti anni ormai, per motivi professionali, vive al Nord. Prima Bologna, ora provincia di Siena. Ed è inutile girarci attorno: il suo cognome richiama subito quello di una famiglia che ha fatto la storia di Lecce, su più fronti.

Esatto, imparentato con gli originari gestori del bar di piazza Sant’Oronzo, che ancora porta fiero sull’insegna quel cognome, bandiera di leccesità pura, è – e qui i più giovani, purtroppo, forse non lo sanno – soprattutto nipote di Ernesto Alvino, giornalista e scrittore di rara raffinatezza, decano dei cronisti salentini e fondatore di un settimanale, “Voce del Sud”, vera palestra di tante, ottime penne locali.

Ergo, è figlio di Leonardo Alvino, affermato geologo e, a sua volta giornalista, più che degno continuatore di quell’eredità, avendo preso in seguito le redini del settimanale e portandolo avanti fin quasi alle soglie dei nostri giorni, con la stessa autorevolezza, diventando così la rivista, sotto la sua guida, ulteriore terreno fertile per altre generazioni di futuri giornalisti. Che di questo saranno, sempre, debitori. 

Stelio, però, ha scelto un’altra strada. Quella della medicina (qui la sua scheda professionale). Una passione coltivata fin da giovane, con i suoi studi in materie scientifiche. Attento, sensibile e scrupoloso fin da ragazzo, oggi è un affermato medico anestesista rianimatore. Lavora in Toscana, per la precisione in provincia di Siena. Provincia che non è stata certo risparmiata dalla bufera, anche se in tono medio (si calcolano circa 13,86 casi di Covid-19 su 10mila abitanti; in provincia di Lecce, per capire il rapporto, sono 5,29). E, considerando il tipo di incarico, si trova costantemente sul campo.

Qual è il vostro ruolo, di anestesisti rianimatori, perché è così rilevante?

“Oltre ai colleghi dei Dipartimenti di emergenza-urgenza un gruppo di medici specialisti soprattutto è particolarmente impegnato, ed è quello degli anestesisti rianimatori che hanno dovuto gestire i casi più gravi di una malattia che, pur avendo un andamento nella maggior parte delle volte benigno, si sta dimostrando per le sue complicanze completamente nuova e collegata a virus, sì, noto, ma che ha subito una mutazione divenendo più aggressivo. Già in passato era accaduto con altre due gravi epidemie da coronavirus: nel 2002 con la Sars e nel 2012 con la Mers che però non avevano raggiunto livelli così globali di diffusione”.

“Si parla nuova malattia perché, via via che dati e casi studiati cominciano a costituire a livello mondiale un patrimonio corposo e prezioso degno di report e pubblicazioni scientifiche, ci stiamo facendo un’idea di cosa si stia affrontando. Presto si avrà un quadro più chiaro che permetterà di navigare non più a vista ma con un approccio diagnostico e terapeutico sistematico. Un traguardo fondamentale sarà la possibilità di avere un vaccino efficace”.

Quando potremo ricominciare una vita “normale”?

“Siamo in pieno periodo pandemico. L’introduzione delle severe norme di contenimento sociale, pur con qualche ritardo per scetticismo iniziale da parte del Governo (non solo italiano, in quanto lo stesso atteggiamento superficiale si è visto anche negli altri Paesi che si sentivano immuni da questo pericolo e che invece stanno evidenziando tutti gli aspetti tipici della classica pandemia), sembrano per il momento riuscire a controllare e limitare il picco di contagio che si avvia molto lentamente, ma progressivamente, verso una discesa. Un banco di prova sarà, a breve, quando dopo il ponte dei primi di maggio, alla ripresa delle attività lavorative e quindi dei contatti, potrebbe riprendere l’ascesa dei casi di infezione da Sars-CoV2 in assenza ancora di una terapia immunitaria vaccinale o farmacologica certa e validata”.

E questo, cosa potrebbe comportare, nell’immediato futuro?

“Ciò impone quelle misure personali che ciascuno di noi ha imparato ad eseguire con maggiore frequenza e meticolosità: lavaggio accurato delle mani, uso di mascherine protettive (quando fuori di casa e a contatto con gli altri), mantenimento delle distanze minime previste (per evitare la contaminazione con le famigerate particelle di aerosol emesse con il respiro ma soprattutto con tosse e sternuti, eccetera), siano comunque mantenute”.

Tutto questo è stato utile? Servirà, in futuro?

“Tutto questo ha garantito il fatto fondamentale che, pur con numeri che ci sono parsi elevati, si stia riuscendo, per ora, a contenere il numero dei contagi e soprattutto di complicazioni che richiederebbero un ricovero in terapia intensiva, entro la disponibilità dei posti letto in Italia, circa cinquemila censiti in situazioni di “normalità”. Anche se con disomogenea distribuzione dei casi che hanno messo a durissima prova le notoriamente efficienti Rianimazioni e Terapie intensive del nord Italia”.

Perché è così difficile la lotta al Covid-19?

“E’ una patologia complessa, soprattutto nei casi che evolvono verso la gravità. Dove, al di là del quadro infettivo virale, il danno principale è dato soprattutto da una cascata pro-infiammatoria che si attiva come risposta alla presenza dell’agente virale nelle cellule infettate, soprattutto, ma non solo, quelle delle vie respiratorie fino a quelle costituenti gli alveoli polmonari. Dicevamo “non solo” perché ciò che si sta osservando è un vasto danno d’organo diffuso che non si limita solo alla fase terminale del quadro di Ards polmonare”. (Ards: Acute respiratory distress syndrome; ovvero, Sindrome da distress respiratorio acuto, ndr).

Ci spieghi meglio questo passaggio sui danni.

“Sono soprattutto le informazioni di carattere autoptico che giungono in questi giorni sui casi studiati a dare le prime scoperte interessanti. Una tra tutte è quella di un vasto danno vascolare diffuso con fenomeni trombotici legati al danno dell’endotelio vascolare (il sottile strato cellulare posto a integrità della parete interna dei vasi che permette al sangue di scorrere senza attivare la cascata coagulativa pro-trombotica). Ecco, quindi, che al corredo terapeutico farmacologico sperimentato su questi pazienti, un ruolo importante lo potrebbe giocare anche la profilassi anitromboembolica che si aggiunge agli altri farmaci in uso”.

E’ difficile seguire un paziente infetto da Covid-19? E perché?

“Il paziente con Covid-19 non è solo complesso nella gestione farmacologica, ma anche in quella respiratoria. Quando intubato e ventilato meccanicamente in Rianimazione necessita anche di frequenti cambiamenti della posizione che, da supina classica, potrebbe essere modificata a “pancia in giù” (prona) con ulteriori difficoltà nella sua gestione, soprattutto infermieristica. Sono necessari almeno quattro o cinque operatori che possano eseguire in sicurezza questa manovra di ribaltamento del paziente incosciente, spesso in sovrappeso, intubato e ventilato meccanicamente sul letto rianimatorio. Insomma un paziente veramente complesso e che mette a dura prova l’esiguo numero di personale dedicato delle Rianimazioni”.

“Né è possibile ipotizzare che basti aumentare semplicemente il numero dei posti letto e dei ventilatori a disposizione per risolvere il problema. Sono necessarie competenze specialistiche che non tutti i colleghi hanno e anche infermieristiche molto particolari. Insomma una specializzazione che certamente non si può improvvisare seppur in uno stato di emergenza, richiederebbe del tempo anche per la formazione degli infermieri che attualmente non si ha”.

Ma come si è arrivati a questo? Cosa non funziona nella sanità?

“A questo proposito, la tragica situazione ha messo bene in evidenza un aspetto della sanità italiana che nel corso degli ultimi anni, con il progressivo, annuale decremento degli investimenti nella salute da parte di tutti i Governi che si sono succeduti, ha creato una pericolosa falla nel sistema di cura. Posti letto ridotti nei nostri ospedali, ridimensionamento di questi ultimi, riduzione degli organici sia medici, sia del personale del comparto tecnico e infermieristico, riduzione del turn-over per la sostituzione di coloro che cessavano i rapporti di lavoro per anzianità o anche per altra scelta”.

“A ciò si aggiunga il perdurare del numero chiuso per i nuovi iscritti alla Facoltà di medicina, la scarsità delle borse di studio e quindi dei posti a concorso a disposizione degli specialisti in formazione nelle varie scuole di specializzazione che annualmente non riescono a coprire il fabbisogno delle necessità del Paese nonostante i tagli apportati. La fuga dei giovani medici verso l’estero, non solo europeo ma anche verso i ricchi e allettanti Paesi arabi per condizioni lavorative ed economiche decisamente più vantaggiose e dignitose. Una miopia nella programmazione vergognosa che alla fine sta dando il suo disastroso e prevedibile risultato. Di ciò, a bocce ferme e nei prossimi anni si dovrà fare i conti soprattutto nel momento di scegliere i nostri futuri governanti”.

Come si può prevenire efficacemente o ridurre al minimo possibile i rischi derivanti da una pandemia?

“Esiste un documento fondamentale che è il “Piano nazionale di preparazione e risposta a una pandemia” di facile consultazione per tutti e messo in rete dall’Istituto superiore di sanità, dove al di là del fatto che il piano, concepito nella metà degli anni 2000, si rivolgesse a una pandemia di tipo influenzale da virus A/H5N1 con disponibilità di vaccini, comunque nei suoi punti generali contiene gli elementi e i principi essenziali per potersi muovere organicamente in un contesto pandemico. Il piano voluto dall'Oms e raccomandato da questa organizzazione di cui l’Italia fa parte, rappresenta il punto di riferimento nazionale in base al quale devono poi essere messi a punto dei piani operativi regionali”.

“Ecco, forse un puntuale e costante aggiornamento di questo piano strategico, la pianificazione degli approvvigionamenti minimi dei Dpi (dispositivi di protezione individuale, ndr) e della logistica necessarie nelle varie fasi, l’esatta definizione dell’organigramma di comando e controllo a partire da un ente centrale fino alla più remota periferia (tutto scritto nel documento) potrebbero in futuro limitarne gli effetti più devastanti facendoci trovare più pronti alla risposta. In considerazione del fatto che ogni pandemia ha un aspetto di novità e imprevedibilità intrinseche”.

E i cittadini? Come devono comportarsi?

“Occorre anche una coscienza civica nella popolazione (conoscenza, istruzione e addestramento sono fondamentali) perché si arrivi a comprendere che in queste situazioni così delicate il compito e il contributo di ciascuno di noi nelle azioni e cose, da fare e da non fare, è assolutamente fondamentale”.


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